Giovani internauti e viaggi senza ritorno: il fenomeno “Blue Whale challenge”
Pubblicato da Massimo Blanco e Micol Trombetta in Criminologia · Lunedì 25 Mar 2019 · 82:00

Autori: dr. Massimo Blanco e dr.ssa Micol Trombetta della Sezione Criminologia Investigativa e Forense dell'Istituto di Scienze Forensi
Introduzione
«La tecnologia dovrebbe migliorare la tua vita, non diventare la tua vita.»
Questa frase pronunciata da Harvey B. Mackay[1] riassume emblematicamente quanto è emerso dalle ricerche effettuate e dalle riflessioni che ne sono scaturite in relazione alla produzione di questo elaborato.
Giovani internauti e viaggi senza ritorno è un’espressione con cui si può sintetizzare la storia di anime fragili, isolate, emarginate e “annoiate” che si confondono tra gli adolescenti di oggi che chiamiamo “web generation”. Una generazione che, a volte, può trovare nella “sfida” la risposta al desiderio di riscattarsi socialmente.
In questo elaborato sarà analizzata nel dettaglio una sfida in particolare, il “Blue Whale challenge”, la più estrema, quella che vinci solo se, alla fine, muori. Il primo capitolo narrerà come nasce il Blue Whale e saranno spiegati i suoi tratti fondamentali nonché le storie di chi ha vinto, sfracellandosi al suolo, e di chi, invece, ha ricevuto in dono una seconda vita terrena. Successivamente, l’analisi si sposterà sulle problematiche connesse all’uso del web, alla “noia”, alla bramosia di “apparire”, ai rischi di adescamento, dipendenza e suicidio, focalizzando l’attenzione anche sugli aspetti legati all’empatia. In seguito, dopo aver descritto i risultati della ricerca sul campo, saranno riportati e commentati i dati emersi da alcune interviste condotte da uno degli autori del presente lavoro, Micol Trombetta, con adulti che vivono o lavorano con adolescenti.
Quello che emerge dalla trattazione ci mostra soprattutto come, in questa nostra ricca e ipertecnologica quanto complessa società, talvolta il raggiungimento del successo sembra passare principalmente per una sorta di lotta per la “notorietà”. Una lotta che si consuma giorno dopo giorno, ora dopo ora, sul web, un “luogo” senza confini dove il tempo è relativo e dove l’immagine di sé assume un ruolo fondamentale. Purtroppo, non tutti si accontentano di mostrare ai propri “followers” immagini ordinarie, come quelle legate alla moda o al divertimento. Alcuni vogliono soprattutto “dimostrare”, e in questo, talvolta, il confine tra vita e morte diventa troppo sottile.
1. Il fenomeno del “Blue Whale challenge”
1.1. Primo contatto
Siamo nel maggio del 2016 quando Galina Murselieva pubblica sul sito del periodico russo “Novaya Gazeta” la prima inchiesta sul fenomeno Blue Whale challenge, o più semplicemente Blue Whale, sostenendo che 130 suicidi giovanili avvenuti in Russia nel periodo compreso tra novembre 2015 e aprile 2016, erano collegati a dei gruppi di VKontakte[2]e, tra questi, almeno ottanta riconducibili proprio al Blue Whale. In un arco di tempo così breve, ottanta fragili anime russe si sono suicidate buttandosi dai palazzi più alti delle città e il fatto più inquietante è che esse si sono filmate e hanno documentato il loro tragico gesto. Questo per seguire un folle rituale psicologico studiato per indurre la mente dei ragazzini ad una sorta di depressione così profonda da vedere nella morta l’unica salvezza col fine ultimo di diffondere i video dei loro suicidi in rete. Così, le testate più importanti a livello internazionale iniziano ad occuparsi di questo fenomeno, cercando di provarne la veridicità e ricostruendone storia e origini ma senza raggiungere risultati apprezzabili nella fase dell’approfondimento. Quel che è certo, però, è che il Blue Whale esiste e che, diffusosi nel 2013, continua tutt’ora a reclutare adepti e a provocare vittime in ogni Paese. Adolescenti spinti dalla smania di fama e dal desiderio di essere ricordati, giovanissimi la cui massima aspirazione è quella dell’immortalità (digitale si intende), i quali, pur di vedere aumentare i like[3] su Facebook, Instagram, YouTube, Snapchat e sul maggior numero dei social network di tutto il mondo, sarebbero disposti a qualsiasi cosa, addirittura a dare la propria vita. Una fotografia tanto preoccupante quanto triste di una società in cui non conta più il rispetto per gli altri e soprattutto per sé stessi, una società materiale, insensibile, una società liquida: “con la crisi del concetto di comunità emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto (la magistratura è sentita come nemica) e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore e ilconsumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo” (Eco, 2016).
1.2. Il gioco della morte
Il Blue Whale Challenge nasce su VKontakte, in sigla VK, un social network russo paragonabile al nostro Facebook dove veri e propri manipolatori della mente, i cosiddetti curatori, “reclutano” le loro vittime di età compresa tra i nove e i diciassette anni. Adolescenti dalla personalità fragile e immatura che vivono in uno stato di isolamento e depressione, quindi facili prede da utilizzare per il raggiungimento dell’obiettivo finale del gioco: il suicidio. I curatori, chiamati anche master o tutor, hanno il compito di suggestionare le giovani vittime manipolandone la volontà, enfatizzando le loro idee di protagonismo e facendogli credere che solo attraverso questo percorso potranno sentirsi liberi e, finalmente, felici, divenendo degli esempi, dei miti immortali. È proprio il fascino del mito che, sempre più, si sta diffondendo tra gli adolescenti d’oggi, portandoli a compiere atti tremendi solo per la gioia di essere ricordati.
Per raggiungere l’obiettivo, l’ideatore del gioco ha elaborato un percorso di cinquanta prove, chiamate regole, da svolgere in cinquanta giorni. Le regole hanno lo scopo di alterare il ritmo veglia-sonno così da rendere l’adolescente docile e sottomesso, pronto ad affrontare un percorso sempre più crudele fatto di notti insonni, gesti autolesivi e attività pericolose fino al ventiseiesimo giorno in cui il curatore dirà al ragazzo quando dovrà morire.
Di seguito le cinquanta regole della Blue Whale Challenge:
- Incidetevi sulla mano con il rasoio "f57"[4] e inviate una foto al curatore.
- Alzatevi alle 4.20 del mattino e guardate video psichedelici e dell'orrore che il curatore vi invia direttamente.
- Tagliatevi il braccio con un rasoio lungo le vene, ma non tagli troppo profondi. Solo tre tagli, poi inviate la foto al curatore.
- Disegnate una balena su un pezzo di carta e inviate una foto al curatore.
- Se siete pronti a "diventare una balena" incidetevi "yes" su una gamba. Se non lo siete tagliatevi molte volte. Dovete punirvi.
- Sfida misteriosa.
- Incidetevi sulla mano con il rasoio "f57" e inviate una foto al curatore.
- Scrivete "#i_am_whale" nel vostro status di VKontakte.
- Dovete superare la vostra paura.
- Dovete svegliarvi alle 4.20 del mattino e andare sul tetto di un palazzo altissimo.
- Incidetevi con il rasoio una balena sulla mano e inviate la foto al curatore.
- Guardate video psichedelici e dell'orrore tutto il giorno.
- Ascoltate la musica che vi inviano i curatori.
- Tagliatevi il labbro.
- Passate un ago sulla vostra mano più volte.
- Procuratevi del dolore, fatevi del male.
- Andate sul tetto del palazzo più alto e state sul cornicione per un po' di tempo.
- Andate su un ponte e state sul bordo.
- Salite su una gru o almeno cercate di farlo.
- Il curatore controlla se siete affidabili.
- Abbiate una conversazione con una “balena" (con un altro giocatore come voi o con un curatore) su Skype.
- Andate su un tetto e sedetevi sul bordo con le gambe a penzoloni.
- Un'altra sfida misteriosa.
- Compito segreto.
- Abbiate un incontro con una "balena".
- Il curatore vi dirà la data della vostra morte e voi dovrete accettarla.
- Alzatevi alle 4.20 del mattino e andate a visitare i binari di una stazione ferroviaria.
- Non parlate con nessuno per tutto il giorno.
- Fate un vocale dove dite che siete una balena.
50. Saltate da un edificio alto. Prendetevi la vostra vita.
Alla base di queste prove da rispettare vi è la regola principale: “Effettua diligentemente ogni compito e nessuno deve saperlo. Quando hai finito il compito devi inviarmi una foto. E alla fine del gioco tu muori. Sei pronto?”
È con queste parole che il curatore inizia la manipolazione della vittima, convincendola che, nel caso decidesse di ritirarsi dal gioco, la pena ricadrebbe sulla famiglia in quanto il gestore del social network è in possesso di documenti e informazioni personali.
1.3. I gruppi della morte
Come già rappresentato, questa sfida si è diffusa tra i giovani a partire dal 2013 ma il fenomeno è emerso solo nel 2016 grazie all’articolo della giornalista Galina Murselieva che, nel suo reportage sul Blue Whale, prese come primo esempio la storia di Rina Palenkova, una sedicenne russa che frequentava le cosiddette chat della morte. Nel novembre del 2015, Rina annunciò con un video sui social network la sua imminente morte per suicidio e, pochi secondi dopo, si gettò sotto un treno. Insieme al video che annunciava il tragico gesto sul suo profilo online, venne ritrovato anche altro materiale video e fotografico nelle cui didascalie compariva la sigla “f57”.
«Non stiamo parlando di un gioco ma di un comportamento pericolosissimo e contagioso. I gruppi che si autocostruiscono sul web insistono sull’emulazione, spacciando le prove a cui gli adepti devono sottoporsi come un percorso di coraggio per uscire dall’adolescenza. A rimanere coinvolti sono i ragazzi più soli, quelli che hanno una frequentazione massiva con la rete, molti amici virtuali ma quasi nessuno reale»[5]. Queste le parole di Carlo Solimene, direttore della sezione investigativa della Polizia Postale che si occupa di contrastare crimini informatici e garantire la sicurezza nel mondo digitale. Solimene descrive questo fenomeno come comportamento contagioso, ponendo l’attenzione sull’emulazione. Infatti, il problema principale è proprio questo: i giovani si contagiano tra loro, decidendo di aderire segretamente a questo gioco spinti dalla curiosità e dal gusto del proibito, totalmente ignari dell’impatto che le regole possono avere sulla loro mente e sul loro corpo. Alcuni psicologi sostengono che le regole sono sviluppate in modo tale da creare nell’adolescente un senso di malessere e sofferenza la cui unica salvezza è il suicidio. Si parla di ragazzi di età compresa tra i nove ed i diciassette anni che hanno una «mente in via di sviluppo, in definizione, ed è quindi una mente fragile; in questa fase della vita l’essere plagiati è un qualcosa di agevolato e facilitato, fermo restando che chi si coinvolge in questi giochi ha delle caratteristiche che noi dovremmo conoscere meglio. Dobbiamo studiare i gruppi di persone che diventano preda di simili giochi. In questo caso il suicidio diventa quasi un gesto eroico finale, per aver concluso una sfida ed essersi sottomessi a un qualcosa di grandioso. Il fatto che queste persone si filmino, o si facciano filmare, rappresenta l’aberrazione più grande della cultura della morte»[6] ha spiegato Maurizio Pompili,responsabile del Servizio per la Prevenzione del Suicidio nell’Azienda Ospedaliera Sant’Andrea di Roma e professore associato di Psichiatria della “Sapienza” di Roma.
Tornando all’intervista fatta a Solimene, è utile soffermarsi anche sulla questione inerente i cosiddetti gruppi della morte. Questi gruppi, che sono nati molto presto su internet, sono luoghi virtuali di incontro per persone in difficoltà e in cerca di consigli, forum atti ad accogliere coloro che riscontrano problematiche nel comunicare all’interno della società reale o soggetti con tendenze suicide che trovano la loro “casa” in queste comunità virtuali. Infatti, questi gruppi sono stati inventati con l’intento di supportare persone problematiche. Gli amministratori e i moderatori favoriscono la creazione e il mantenimento di un ambiente non giudicante, instillano nei frequentatori sicurezza, li fanno sentire compresi, liberi di esprimersi, offrono aiuto a chi non è in grado di cercarlo o a coloro che non sanno a chi rivolgersi.
Come spesso accade nella società reale, anche sul web possiamo rinvenire forme di devianza. Infatti, tra gli attuali diversi gruppi della morte che, come abbiamo visto prima, sono comunità nate con intenti positivi e indirizzati al benessere collettivo, troviamo anche quelli indirizzati al male. È il caso dei Suicide Apartment, gruppi della morte presenti nel dark web[7] il cui intento è quello di favorire l’incontro di due soggetti con idee suicidarie disposti a togliersi la vita su Skype o anche solo in nome della fiducia reciproca[8]. Visitando questi gruppi, si trovano spesso riferimenti al Blue Whale. Per questo motivo - come si approfondirà in seguito nel paragrafo 1.5. - la Duma[9], in Russia, ha emanato una legge che punisce penalmente coloro che partecipano a queste chat della morte.
1.4. Chi è Philipp Budeikin e perché “Blue Whale”
Ma la domanda che tanti si pongono è: perché?
Dietro a questo gioco dell’orrore vi è Philipp Budeikin, un giovane russo di ventitré anni studente di psicologia, ideatore del Blue Whale. Budeikin, arrestato a San Pietroburgo nel maggio 2017 e ora detenuto con l’accusa di istigazione al suicidio, si faceva chiamare sui social con il nickname “Lis”, che significa volpone. In tribunale ha confessato di non essere assolutamente pentito per ciò che ha fatto, anzi: «Ci sono le persone e gli scarti biologici. Io selezionavo gli scarti biologici, quelli più facilmente manipolabili, che avrebbero fatto solo danni a loro stessi e alla società. Li ho spinti al suicidio per purificare la nostra società. Ho fatto morire quelle adolescenti, ma erano felici di farlo. Per la prima volta avevo dato loro tutto quello che non avevano avuto nelle loro vite: calore, comprensione, importanza. Non sono pentito di ciò che ho fatto, anzi. Un giorno capirete tutti e mi ringrazierete»[10].
Scopo di Budeikin era quello di ripulire la società facendosi accettare come leader da molti adolescenti deboli, confusi, magari con problemi psicologici o familiari, che trovavano nelle prove un senso di gratificazione, facendo sentire apprezzate bambine e giovani ragazze che, ancora oggi, non riconoscono il pericolo in cui si erano addentrate e fanno recapitare, ogni giorno, lettere d’amore al detenuto.
Altro nome conosciuto, associato a Philipp Budeikin, è quello di Yulia, o meglio, Eva Reich come preferiva farsi chiamare in chat. Questa ragazzina di soli tredici anni, ha sostenuto di aver anche lei contribuito alla «pulizia dell’umanità dai più deboli», ma è stata rilasciata in quanto sotto i limiti d’età per procedere per vie legali.
Blue Whale, letteralmente balena azzurra, rimanda al comportamento di questi cetacei che, senza un valido motivo, si spiaggiano sulle rive e la maggior parte delle volte, non essendo più in grado di rientrare in acqua, muoiono. I biologi marini attribuiscono le cause di questa tragica fine alla perdita dell’orientamento e, quindi, all’incapacità di muoversi nell’immensità dei fondali marini. Vi sono quindi due importanti similarità con la sfida del Blue Whale: si tratta di fenomeni di massa riguardanti fragili vite che si sentono diverse, lontane, isolate e non trovano una via di fuga. Persone disorientate, smarrite in una società poco solidale, giovani che si sentono estranei nel loro mondo. Si potrebbe fare riferimento, proprio sulla base di questi concetti, al pensiero di Èmile Durkheim, uno dei padri della sociologia, il quale, nel suo scritto più importante - Il Suicidio - spiega come il suicidio sia un fatto sociale. L’uomo è perennemente condizionato dalla società anche nei suoi lati più intimi come, ad esempio, la scelta tra la vita e la morte. Ecco perché il suicidio per Durkheim rappresenta l’indice migliore per misurare il grado di integrazione individuale nella comunità (Durkheim, 1897).
1.5. Come è stato affrontato in Italia e nel mondo
In Italia la notizia del Blue Whale Challenge si diffonde nel maggio 2017 con il servizio televisivo della trasmissione “Le Iene” in onda su Mediaset. Subito dopo questa puntata, una moltitudine di siti internet, telegiornali e giornali hanno ripreso la notizia sostenendo si trattasse di una bufala o di una leggenda metropolitana, scagliandosi contro il programma e accusandolo di invogliare i ragazzi a cimentarsi nella sfida del Blue Whale.
In realtà, i giornalisti de “Le Iene” non sono i primi ad aver parlato del fenomeno in Italia. Già nel marzo 2017, quindi due mesi prima del loro primo servizio sul tema, alcune delle principali testate giornalistiche della carta stampata e del web, quali “La Repubblica”, “Il Giornale”, “Il Messaggero”, “GQ”, “Libero”, “Quotidiano.net” e molti altri, trattavano del fenomeno, allarmando i propri lettori. Questo perché il 4 febbraio 2017, a Livorno, è stato accertato il primo caso di Blue Whale nel nostro Paese riguardante un ragazzino di 15 anni che si è lasciato cadere dal palazzo più alto dalla città. Il 20 maggio 2017, poi, lo stesso stava per accadere a Pescara. Fortunatamente, in questo caso, le forze di polizia intervenute hanno salvato la tredicenne che aveva assolto tutti i compiti dati da 49 delle 50 regole e che avrebbe dovuto ultimare il suo percorso, suicidandosi, il giorno seguente. È stata la ragazza stessa a dichiarare «si è vero, ho partecipato al Blue Whale».
Nel periodo successivo al mese di marzo 2017, mese in cui le testate giornalistiche prima citate pubblicano del Blue Whale, mentre in Italia ci si interroga ancora sull’effettiva esistenza del fenomeno, nel resto del mondo le forze di polizia e le istituzioni sanitarie combattono quotidianamente questo orribile e macabro gioco, mettendo in atto campagne di sensibilizzazione per prevenirlo e contrastarlo. Ne è un esempio un famoso spot pubblicato in rete, che riprende una bambina con una balena incisa sul braccio che piange in cima ad un tetto prima di lasciarsi cadere nel vuoto. A questa tragedia assiste la sua anima avvilita dal pensiero del dolore che questo gesto provocherà nelle persone a lei care.
In Russia, il co-fondatore dell’Associazione “Salviamo i bambini dai crimini informatici” ha sempre sostenuto che parlarne non può che essere un bene per il contrasto al fenomeno. Parlare significa prevenire, conoscere e rendere la gente consapevole di ciò che sta accadendo. Sempre in Russia, nel giugno 2017, è stato arrestato Ilya Sidorov, curatore di ventisei anni reo confesso, che ha ammesso di aver adescato, tramite chat della morte, trentadue ragazzine minorenni, dando loro i compiti di causarsi danni alla salute con l’obiettivo di portarle al suicidio. Ecco le sue parole: «Ero curatore e davo istruzioni alle bambine, tramite i social e internet. Le istruzioni consistevano nel tagliarsi le mani, svegliarsi alle 4.20 del mattino…». Questa notizia è stata trasmessa dai principali telegiornali, sui più importanti siti internet e dalle maggiori agenzie di stampa della Federazione Russa. Il Ministero degli Interni russo, per voce del colonnello Irina Volk, trasmise anche un comunicato ufficiale. Riguardo alla situazione, il deputato del Parlamento Irina Yarovaya ha sostenuto con forza che il Blue Whale è una vera e propria «guerra contro i bambini» e «un’attività criminale organizzata e intenzionale». La tenacia della Yarovaya ha portato il Governo russo ad approvare un decreto in cui vengono inasprite le pene per chiunque istighi al suicidio giovani ragazzi o promuova azioni pericolose che possono portare i minori alla morte. Vladimir Putin, per scoraggiare i malintenzionati del web, ha firmato, il 28 aprile 2017, una legge sulle responsabilità penali per la creazione di questi gruppi della morte, inasprendo le pene fino a sei anni di reclusione. Nello stesso periodo, in Inghilterra, la testata del “The Times” londinese pubblicava la notizia “Un postino russo ha trascinato gli adolescenti nel Blue Whale”. E ancora, in Albania, vengono sviluppate diverse campagne di sensibilizzazione per informare la popolazione e, in particolare, i giovani, i genitori e gli insegnanti. Uruguay, Equador e Hong Kong iniziano ad adottare dei sistemi di prevenzione. In India emergono i primi casi di suicidio riconducibili al gioco della morte. Negli Stati Uniti, la CNN e la BBC ne parlano continuamente, illustrando almeno 5 casi di Blue Whale accaduti a Buenos Aires. In Ucraina, dopo accurate indagini, vengono accertati almeno 35 casi. In Europa, si muove anche la Francia che istituisce campagne a scopo preventivo tramite i social, la televisione e i giornali. Il Ministero dell’Istruzione diffonde una circolare in tutto il Paese per allertare la popolazione in relazione al macabro gioco, secondo la filosofia che “parlarne significa che lo si sta già combattendo”. In Spagna e in Portogallo, i ministeri dell’interno emanano un comunicato ufficiale in cui manifestano piena disponibilità a cooperare con varie istituzioni per prevenire e reprimere il fenomeno criminale.
1.6. La situazione in Italia
Anche in Italia le misure operative contro il Blue Whale non hanno tardato ad arrivare. Il Ministero dell’Interno e varie organizzazioni governative e non governative, infatti, hanno messo in atto strategie di prevenzione e controllo volte ad aiutare i giovani, evitando loro di cadere nella trappola mortale.
Nel quadro delle attività preventive sopra descritte, la Polizia postale ha elaborato cinque regole positive contro il Blue Whale indirizzate ai ragazzi, ai genitori e agli attori sociali impegnati sul fronte dell’educazione:
- è necessario dialogare in famiglia e nelle principali sedi educative sul mondo di internet, dei rischi che può portare un uso scorretto del web e del fenomeno del Blue Whale ascoltando anche il parere dell’adolescente;
- bisogna prestare attenzione ai cambiamenti nella vita dell’adolescente, quali rendimento scolastico, amicizie, ciclo veglia-sonno ecc.;
- mai sottovalutare ciò che viene raccontato dall’adolescente. Ciò che agli adulti può sembrare poco importante, magari può essere fondamentale per il ragazzo o la ragazza;
- fondamentale è denunciare chiunque attenti alla vostra vita e al vostro benessere, anche se tramite una chat; fondamentale è parlarne con qualcuno e chiedere aiuto;
- è utile controllare ed informarsi sui gruppi ai quali si viene aggiunti nei social network.
2. Adolescenza, web e rischi connessi
2.1. Adolescenza annoiata: un ossimoro?
Nel nostro tempo, per spiegare alcuni dei più preoccupanti comportamenti devianti e/o criminali messi in atto dagli adolescenti, il termine più utilizzato da psicologi, psichiatri, sociologi e pedagogisti è “noia”. Di questo stato puramente psicologico di demotivazione, fastidio e tristezza, se ne parlava già nella Roma antica. Nel secondo secolo, l’imperatore Marco Aurelio, noto per essere stato anche un grande filosofo, affermava che una delle più comuni malattie che può affliggere l’essere umano è l’insoddisfazione, quella sensazione che manchi qualcosa. Una volta preda della noia, l’individuo cerca di spronarsi ma questo non fa altro che portarlo all’inquietudine e, alla fine, alla consapevolezza dei propri insuccessi. Così, egli prova in tutti i modi a fuggire da se stesso dedicandosi ad attività che lo distraggano per superare la noia di vivere[11]. Ciò nonostante, se da un lato possiamo affermare, senza l’apporto di ulteriori disquisizioni psicologiche, che il pensiero di Marco Aurelio costituisca la rappresentazione plastica della condizione di certi adulti provati da particolari vissuti emotivi, di anziani che vivono in solitudine, di tossicodipendenti o di soggetti affetti da depressione[12], dall’altro risulta difficile credere che un adolescente possa essere vittima di noia cronica. Infatti, l’adolescenza, pur essendo una fase assai critica dello sviluppo umano caratterizzata da imponenti modificazioni psicologiche e somatiche, dal superamento dell’egocentrismo infantile e dal forte desiderio di distaccarsi dalle figure genitoriali per scoprire il mondo “là fuori”, è il periodo in cui un individuo dovrebbe manifestare sentimenti diametralmente opposti alla noia. Vero è che l’adolescente può facilmente alternare periodi di grande fervore, eccitazione e spregiudicatezza ad altri di scoramento, delusione e noia, ma in questo contesto di fragilità e alternanza di stati d’animo, l’elemento cardine della sua esistenza resta sempre la voglia di vivere esperienze costruttive e gratificanti. La noia, infatti, costituisce un brevissimo periodo utile alla riflessione, l’anticamera di una nuova fase dello sviluppo personale, perché se si è annoiati significa che le solite attività hanno perso il loro fascino. Così, dopo un brevissimo periodo di noia, si attiva la spinta a ricercare nuovi interessi e nuove passioni che favoriscono la crescita. Questa fotografia, però, appare assai sbiadita nel momento in cui ci si trova ad interrogarsi sulla dilagante noia negli adolescenti di oggi che li porta, in alcuni casi, ad adottare stili di vita e comportamenti antisociali e/o autodistruttivi.
2.2. “Web generation”
Tra i moderni “luoghi” di socializzazione sotto la lente di ingrandimento delle istituzioni, dei diversi enti e degli esperti che si occupano di devianza giovanile, quello che attualmente possiede lo status di “sorvegliato speciale” è sicuramente il controverso mondo virtuale, il web e le sue immense potenzialità. Ma prima di parlare dei pericoli correlati al web, è necessario partire da alcune considerazioni relative alla fase dell’adolescenza in virtù dei significativi mutamenti verificatisi non solo nella modalità, ma anche nei tempi in cui si esprime questa fase dello sviluppo nell’odierna ipertecnologica società.
L’arco temporale dell’adolescenza, fino a pochi anni fa era definito tra gli 11-12 anni e i 18-19 anni di età nelle ragazze e tra 12-14 anni e i 20-21 anni nei ragazzi. In media, la pubertà[13] iniziava a manifestarsi intorno ai 14 anni. Oggi, invece, nel mondo occidentale, la pubertà esordisce all’incirca a 10 anni. Un recente studio condotto presso il Centro per la salute degli adolescenti del "Royal Children’s Hospital" di Melbourne da Susan Sawyer e colleghi, ha evidenziato che le ragazze hanno già la prima mestruazione tra gli 8 e i 10 anni e che, nel Regno Unito, una ragazza su due è già pienamente sviluppata a 12 anni. L’anticipazione della pubertà deriva da migliori condizioni di vita, ma da contraltare a questo dato incoraggiante vi sono delle problematiche di carattere sanitario. Infatti, una pubertà precoce può dare luogo ad anomalie del comportamento, all’insorgenza di depressione e ad un aumento del rischio di sviluppare patologie cardiache o alcuni tipi di tumore (Sawyer et al., 2018). Da un duplice punto di vista, sanitario e sociale, sono inoltre da tenere in grande considerazione il pericolo di rapporti sessuali a rischio nonché quello di gravidanze indesiderate, considerato il fatto che lo sviluppo del corpo risulta notevolmente più avanti di quello della mente. Sempre nello stesso studio di Sawyer, viene confermato quanto già riscontrato da diverso tempo, cioè il procrastinarsi del periodo adolescenziale che, oggi, si spinge mediamente fino ai 24 anni di età. L’adolescenza comincia presto e termina tardi e le cause principali di quest’ultimo dato sono soprattutto il prolungamento degli studi, la crisi occupazionale, il precariato e gli elevati costi per affittare o comprare una casa. I giovani neomaggiorenni restano in famiglia, rischiano di essere “infantilizzati” dai genitori e di rimanere “incastrati” in un ruolo sociale che li lega ancora al mondo dei ragazzi anziché spingerli verso quello degli adulti.
Quando si pensa all’adolescenza come una “semplice fase della crescita”, si commette l’errore di ridurre ai minimi termini il vero significato umano e sociale di un delicatissimo periodo dello sviluppo del futuro adulto. Anzi, a pensarci bene, l’attenzione verso gli adolescenti nasce soprattutto quando essi iniziano a dare problemi. L’adolescenza è già di per sé una fase assai critica dell’esistenza umana, sia da un punto di vista psicologico che biologico, un periodo di importanti e imponenti cambiamenti interiori ed esteriori che, oggi, risultano non adeguatamente supportati dalle agenzie di socializzazione, famiglia in primis. Nella nostra epoca, caratterizzata da complessità e continue quanto repentine trasformazioni, i punti di riferimento sono labili o risultano assenti invece che essere chiari e stabili. Anziché fornire agli adolescenti le regole, anche forti, e i punti di riferimento di cui hanno bisogno e ai quali hanno parimenti diritto, spesso la società sceglie il metodo più sbrigativo per chiudere la “pratica” con diverse etichette: sono scansafatiche, non hanno obiettivi, non vogliono responsabilità, non hanno intenzione di crescere ecc. In verità, ciò che sono i ragazzi oggi è il prodotto della deresponsabilizzazione attuata dalla società stessa. Infatti, agli adolescenti non si chiede mai nulla e non gli si affidano ruoli o compiti di responsabilità. L’invito è sempre quello di studiare al fine di ottenere una buona posizione lavorativa, comportarsi in modo educato per farsi voler bene e raggiungere il successo personale, con buona pace di chi pensa che la natura umana sia “sociale” e che i successi raggiunti dall’umanità nel corso di migliaia di anni siano frutto della cooperazione e non dell’individualismo. Così facendo, la società non tiene conto minimamente del fatto che la fisiologia umana e, quindi, la salute, dipendono dalle relazioni sociali, quelle stabili e nel mondo reale. Infatti, la qualità dei rapporti interpersonali gioca un ruolo fondamentale sulle cellule e sulle intere strutture cerebrali. Se le relazioni sociali funzionano adeguatamente, garantiscono il massimo sostegno psicofisico non solo al gruppo ma anche al singolo individuo (Blanco, 2016). Invece, la carenza di relazioni sociali vere e nel mondo reale, che comporta l’assenza di adeguati stimoli o sollecitazioni, porta inevitabilmente ad escludere l’adolescente dalla società, facendogli provare un senso di vuoto che, oggi, il ragazzo o la ragazza possono colmare con smartphone, tablet, pc, videogiochi e tutto ciò con cui è possibile collegarsi a internet (Costanzo, 2017). Così, le relazioni con la società reale si indeboliscono e si rafforzano quelle con la società virtuale, dove per gli adolescenti è possibile sperimentarsi, costruire degli ideali e condividere le proprie passioni. Il web diventa il posto privilegiato per socializzare in modo sicuro, tanto è che oggi si parla di web generation per denominare gli attuali adolescenti. Da qui ne deriva la circostanza che le regole sociali diventano quelle apprese direttamente o indirettamente sul web e che l’identità viene costruita attraverso i personaggi della Rete anziché con i naturali modelli di riferimento come possono essere i genitori, i fratelli maggiori, gli insegnanti ecc. La vita viene vissuta alla giornata e non vi è né progettualità né visione del proprio futuro. In questo modo, i ragazzi sono liberi di non impegnarsi e di vivere pensando di poter essere, dire e fare ciò che vogliono e di poter ottenere subito ciò che desiderano, avendo la sensazione, perlomeno iniziale, di avere tutto sotto controllo. In realtà, però, essi rischiano di spingersi verso l’isolamento, l’insoddisfazione e/o la noia. Il paradosso è che il benessere ha generato situazioni di malessere tra i giovani (Ulivieri, 1997). Gli adolescenti non han più la necessità di soddisfare i propri bisogni materiali ma, al contempo, non sono in grado di chiarire quali, invece, siano i loro desideri a parte quello dell’“apparire”.
2.3. Sfuggire alla noia di vivere strizzando l’occhio alla morte
Tradizionalmente, si ritiene che gli adolescenti più a rischio siano quelli che hanno problemi di abuso di sostanze stupefacenti o alcol ovvero che sono vittime di abusi familiari o persecuzioni. Oppure, ancora, che vivono in situazioni di degrado sul piano economico e sociale. Purtroppo, questo modello, negli ultimi anni, si allinea sempre meno con la realtà. Infatti, sono sempre più i ragazzi a rischio che poco o nulla hanno a che fare con le situazioni sopra descritte ma che si producono ugualmente in comportamenti che denunciano dei veri e propri disturbi della condotta[14]. Tra questi comportamenti, quelli che negli ultimi anni destano particolare preoccupazione e che si stanno lentamente ma costantemente diffondendo tra gli adolescenti, sono i cosiddetti “giochi estremi”, pratiche dettate da mode folli che terminano non di rado in ospedale, lasciando segni talvolta indelebili sia sul piano fisico che psichico. A volte, poi, questi giochi si concludono nel modo più tragico, cioè con la morte del giocatore o di poveri innocenti finiti per caso in queste raccapriccianti attività “ludiche” messe in campo da ragazzi che non sanno più come distrarsi ed entusiasmarsi. Ragazzi che gustano la vita al meglio solo quando di mezzo c’è il proibito, l’eccesso, il pericolo, la violenza, il dolore e, non da ultima, la popolarità, visto che molto spesso i video di giochi o sfide estremi vengono poi diffusi sul web.
Qui di seguito, un elenco di alcuni giochi e/o sfide estremi praticati anche in Italia[15].
- Choking game (Space monkey). Consiste nel provocare la perdita di coscienza per soffocamento al fine di raggiungere uno stato di euforia. Un giocatore esercita una pressione sulla carotide dell’altro giocatore e l’ipossia che ne deriva provoca una perdita dei sensi temporanea. Quando il giocatore strangolato rinviene, prova uno stato di stordimento e, al contempo, una piacevole euforia. In pratica è un modo per “sballarsi” senza assumere sostanze.
- Batmanning, la moda ispirata al famoso supereroe della “DC Comics”. Il giocatore si appende con i piedi e resta a testa in giù. Questa posizione provoca delle modificazioni fisiologiche che sfociano nell’annebbiamento delle facoltà sensoriali e nella modificazione del battito cardiaco. Purtroppo, non sono infrequenti le rovinose e pericolosissime cadute a terra del giocatore che si prodiga in questo gioco.
- Horsemanning. Anche se poco diffuso, considerato che prevede la cooperazione di più giocatori, consiste nel farsi fotografare in posizioni in cui sembra di essere stati decapitati.
- Owling (da “owl”, gufo), uno dei giochi più recenti. Consiste nel farsi immortalare accovacciati nei posti più strani, come su un tavolo, una lavatrice o su sostegni molto più pericolosi, anche a diversi metri di altezza.
- Planking. Anche qui si tratta di essere fotografati o ripresi sdraiati in posti o situazioni strani. Data l’apparente innocuità del gioco, sembra che tale pratica sia stata motivo di danneggiamenti a persone e cose, tanto è che in alcuni Paesi del mondo la polizia ha dovuto arrestare i giocatori.
- Eyeballing. Consiste nel versarsi della vodka negli occhi. È una pratica che spopola sul web, nata negli ambienti universitari inglesi e diffusasi rapidamente anche negli Stati Uniti. In seguito all’insano e pericolosissimo gesto, il giocatore inizia a urlare dal dolore e, in taluni casi, perde i sensi. Il motivo del gioco è dovuto alla credenza che l’alcol, attraverso i bulbi oculari, arrivando più rapidamente nel sangue, consenta di ubriacarsi molto più velocemente. I medici, invece, sostengono che sia come gettarsi candeggina negli occhi e che vengano provocate serie lesioni alla cornea con compromissione del senso della visione. Per quanto concerne lo “sballo”, i medici dicono che si tratti di un effetto a livello locale, in quanto la pesante irritazione degli occhi provoca la distorsione della visione.
- Il binge drinking. È assai diffuso tra i giovani ed è molto pericoloso. Consiste nel bere almeno cinque alcolici in meno di due ore a digiuno. Questa pratica proviene dal Nord Europa e, negli ultimi dieci anni, si è diffusa in Italia coinvolgendo massicciamente i nostri adolescenti.
- Balconing. È un fenomeno nato a Ibiza e Maiorca (Spagna) nei primi anni del Duemila ma diffusosi significativamente nell’estate del 2010. Consiste nel concludere una notte a base di alcol e/o stupefacenti lanciandosi da terrazze e balconi degli alberghi nelle piscine di questi, oppure saltare da un balcone all’altro. Talvolta il “gesto atletico” non va a buon fine e il giocatore si schianta al suolo.
- Plumbking. Consiste nel mettersi a testa in giù nella tazza da bagno, celando il capo all’interno della tazza.
- Cinnamon challenge. La sfida è quella di ingoiare un cucchiaio di cannella in meno di un minuto senza bere acqua. Se una dose della spezia finisce accidentalmente nei polmoni, si rischiano serie irritazioni o, addirittura, lesioni permanenti. Se poi lo sfidante è un soggetto asmatico, la sfida può anche risultare fatale.
- Backpack challenge. Consiste nel passare tra due file di compagni di scuola che, con i loro zaini pesanti, colpiscono il giocatore per farlo finire a terra. È inutile dire che, se lo zaino contiene oggetti pesanti e/o con spigolosità, si rischiano traumi anche gravi.
- Salt and ice challenge. La sfida consiste nel cospargersi una parte del corpo con il sale e poi applicare sopra di essa un cubetto di ghiaccio. Si rischiano ustioni anche di secondo grado.
- The condom snorting challenge. Lo sfidante deve infilare un preservativo nel naso e farlo uscire dalla bocca. Il rischio è che il condom resti incastrato nella trachea provocando il soffocamento.
2.4. Narcisismo 2.0
«In futuro tutti avranno il loro quarto d’ora di notorietà». Questa la frase profetica più azzeccata da Andy Wharol[17], padre della pop art americana, per descrivere il nostro tempo, quello dei social[18].
In Italia e nel mondo l’utilizzo e la diffusione dei social non conoscono crisi. In Italia, dal 2017 ad oggi (rilevazione marzo 2018), gli utenti sono cresciuti del 10% raggiugendo il numero di 34 milioni. In sostanza, il 57% della popolazione è presente in modo attivo sui social. Il social media più utilizzato è YouTube con il 62% di utenti; a seguire troviamo Facebook (60%), WhatsApp (59%), Facebook Messenger (39%), Instagram (33%), Google+ (25%) e Twitter (23%). Per quanto riguarda la fascia che ci interessa, quella tra i 13 e i 24 anni, gli utilizzatori di Facebook sono appena l’11% del totale (solo il 2% nella fascia compresa tra 13 e 17 anni). In relazione al sesso degli utilizzatori dei social, non si riscontrano significative differenze tra maschi e femmine. In media, un italiano trascorre sei ore al giorno online, due delle quali utilizzando un social. Contrariamente al resto del mondo, dove Facebook conta il maggior numero di utilizzatori, in Italia questo primato viene conteso con YouTube. Instagram, tra i social network, è il meno utilizzato, mentre i servizi di messaggistica più usati sono WhatsApp e Facebook Messenger[19].
Nell’analisi di queste statistiche è però necessario tenere in considerazione il fatto che nessuna delle piattaforme social ha un sistema di controllo dell’età dichiarata. Ad esempio, pare che molti degli utilizzatori di Instagram siano ragazzi minori di 13 anni. Infatti, tra i ragazzi delle scuole medie inferiori, quindi tra gli 11 e i 13 anni, quelli che utilizzano Facebook, rispetto a soli 5 anni fa, sono diminuiti drasticamente. Al contrario, è cresciuto a dismisura il numero degli adolescenti che utilizzano Instagram. Questo dato deve farci riflettere, in quanto Instagram è un social basato principalmente sull’interazione attraverso immagini piuttosto che sullo scritto. Ciò suggerisce quanto, oggi, soprattutto fra i più giovani, sia importante l’immagine e, quindi, comunicare principalmente attraverso di essa.
Per quanto riguarda gli altri Paesi d’Europa, nel 2016, nel Regno Unito, la BBC ha condotto un’indagine su 1200 adolescenti di età compresa fra i 13 e i 18 anni, rilevando che ben il 96% di essi erano iscritti ad almeno un social. Tra i minori di 13 anni, la percentuale era ancora molto alta: il 73%, nonostante il divieto di utilizzo dei social per i ragazzi al di sotto di questa età[21].
A livello mondiale ogni anno il numero di iscritti ai social cresce vertiginosamente. Miliardi di persone nel mondo (e decine di milioni in Italia), ogni giorno pubblicano, anche in modo dettagliato, fatti e foto della propria vita aspettando i “like”. C’è chi pubblica ogni tanto ma c’è anche chi passa giorno e notte a controllare “pollici all’insù” o se ci sono nuovi followers[22]. C’è chi dorme pochissime ore e c’è anche chi lascia l’avviso acustico delle notifiche attivato, svegliandosi nel cuore della notte per controllare il proprio profilo social sullo smartphone posto sul comodino (se non addirittura sotto le coperte). Negli ultimi anni gli psicologi si stanno interrogando sui motivi dell’esplosione di questo desiderio di mettersi in mostra per ottenere consenso e ammirazione, in quanto i dati suggeriscono che siamo in presenza di una sorta di epidemia di disturbo narcisistico di personalità, un disturbo della personalità caratterizzato da idee di grandiosità, bisogno costante di ammirazione e mancanza di empatia. Questa tipologia di disturbo non è stata ancora ben inquadrata sotto il profilo delle cause scatenanti, ma alcuni psicologi sostengono che un ambiente di crescita in cui le figure genitoriali tendono ad elevare le doti dei propri figli, evitando al contempo qualsiasi critica nei loro confronti, possa portare i ragazzi a sperimentare comportamenti narcisistici già nell’infanzia (Groopman e Cooper, 2006). La personalità narcisista funziona per mezzo del potenziamento e del mantenimento del senso di autostima (Thomas et al., 2009), pertanto il bisogno costante di convalida sociale si trasforma in pensieri e comportamenti patologici (Wright, 2014) che, il web, può amplificare.
Il termine “narcisismo” deriva dal mito greco di Narciso, quello che meglio rappresenta il primato dell’immagine. Narciso era bellissimo e di lui si innamorò perdutamente la ninfa Eco la quale, però, venne veementemente respinta. Per il dolore, Eco si ridusse ad un’ombra e di lei rimase soltanto una voce che produceva lamenti strazianti. Così Nemesi, la dea che puniva le debolezze degli uomini, udendo i lamenti di Eco, si adoperò per vendicarla facendo in modo che Narciso si specchiasse in una pozza profonda d’acqua su cui si era chinato per bere. Quando Narciso vide la sua immagine riflessa, si innamorò del ragazzo che stava fissando, senza rendersi conto che si stava semplicemente specchiando. Dopo qualche tempo, Narciso realizzò che il ragazzo di cui si era innamorato era egli stesso, così, consapevole che non avrebbe mai potuto ottenere quell’amore, si lasciò morire[23].
Da un punto di vista sociale, la marcata diffusione dei social mette in luce l’emergere di un nuovo narcisismo in cui la magnificenza e la perfezione dei rapporti interpersonali in rete esaltano l’immagine a discapito delle interazioni umane che vengono del tutto spersonalizzate. In questa nuova cultura, la memoria collettiva viene affidata allo smartphone, al tablet o al pc attraverso foto e video, mentre i discorsi vengono sempre più messi da parte e le uniche espressioni che si leggono restano quelle precedute dagli hashtag[24]. Come Narciso che si innamora del bellissimo ragazzo che vede nella pozza d’acqua e che non è reale, anche chi utilizza i social per nutrire il proprio ego, la propria autostima, ama quell’immagine che ha nel mondo virtuale. Un’immagine che non potrà mai essere reale ma che continua ad essere coltivata portando inesorabilmente verso la dissociazione dalla realtà e all’isolamento. Il narcisismo, inoltre, va di pari passo con l’individualismo. Possiamo ritrovare l’espressione di questa nuova cultura anche nelle nuove modalità in cui parliamo e scriviamo. Ad esempio, una ricerca condotta su “Google Books” ha evidenziato che anche sui libri vengono sempre più utilizzati pronomi singolari (Twenge et al., 2014). Tutte queste evidenze ci riportano agli anni Settanta e Ottanta del XX secolo. Negli anni Settanta, Christopher Lasch coniava l’espressione narcisismo culturale per spiegare come la società dell’epoca promuovesse l’individualismo invitando le persone a focalizzarsi su sé stesse, sostenendo i culti della fama e della celebrità unitamente al timore della vecchiaia e delle relazioni a lungo termine. Poi, negli anni Ottanta, venne alla luce l’espressione individualismo espressivo (Ballah et al., 1985), una sorta di epidemia culturale che incoraggia le persone a focalizzarsi su di sé, enfatizzando le proprie emozioni ed espressioni e contrapponendosi alla collettività (Paris, 2014).
Allo stato attuale, i pareri all’interno della comunità scientifica al riguardo della correlazione tra narcisismo e social non sono univoci. Ciò nonostante, negli ultimi vent’anni gli studi sulle correlazioni tra narcisismo e web suggeriscono di tenere alta la guardia, soprattutto perché i social, in modo particolare quelli legati all’immagine, sono sempre più utilizzati da bambini e ragazzi nella delicatissima fase della prima adolescenza.
2.5. Dipendenza 2.0
Fin qui si è visto come i moderni strumenti di interazione virtuale, soprattutto gli smartphone che sono sempre in tasca, possano causare una disconnessione dal mondo reale, portando le persone a isolarsi, a vivere in funzione della propria immagine, a nutrirsi voracemente di consensi virtuali e, quindi, a rischiare di sconfinare in comportamenti di matrice narcisistica. Ora vediamo come si realizza la dipendenza dal web[25], inquadrata dal punto di vista medico come dipendenza da internet, in inglese internet addiction disorder (IAD).
L’espressione “internet addiction disorder” si deve allo psichiatra newyorkese Ivan Goldberg che la inventò di sana pianta nel 1995 per criticare, sulla propria bacheca della rivista scientifica online “PsyCom.net”, i rigidi criteri diagnostici della nuova edizione dell’epoca, la quarta, del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM)[26]. Goldberg tutto si sarebbe aspettato tranne che di scoperchiare il cosiddetto “vaso di Pandora”. Infatti, nella sua nota, lo psichiatra paragonò la dipendenza dal gioco d’azzardo alla dipendenza da sostanze, circostanza oramai acclarata, e, in modo ironico, citò anche la dipendenza da internet. Immediatamente, la bacheca di Goldberg fu letteralmente inondata di commenti di persone che erano rimaste intrappolate nella rete e avevano disperatamente bisogno di aiuto. Lo stesso Goldberg non credeva potesse esistere una vera e propria dipendenza da internet ma, piuttosto, un suo uso eccessivo (Dalal e Basu, 2016). Invece, il problema era assai serio e diffuso.
La dipendenza da internet è un disturbo del controllo degli impulsi[27]. Le persone che ne sono affette, fanno un uso sregolato e patologico di qualsiasi strumento tecnologico collegato alla Rete che le può portare, quando non sono connesse, a sintomi di astinenza e isolamento sociale nonché a compromettere le relazioni sociali, da quelle più intime a quelle lavorative. Il soggetto dipendente da internet, quando è in astinenza manifesta irritabilità, attacchi di ansia e stati depressivi (Young, 1996a). Alcuni soggetti possono arrivare a trascorrere intere giornate e nottate su internet senza mai disconnettersi e ad ignorare le normali attività, anche quelle essenziali. L’uso eccessivo di internet è spesso collegato al bisogno di colmare vuoti affettivi e/o la solitudine oppure alla necessità di sfogare le frustrazioni. Infatti, per molti il web è una vera “valvola di sfogo” delle emozioni negative provate nella vita reale. Così, il web diviene il “luogo” ideale per dissociarsi da una realtà avversa o percepita come tale, un posto senza confini dove anche il tempo perde il suo significato e valore e dove perdersi risulta quanto mai piacevole. Il web sembra avere un effetto anestetico che dona alla mente e al corpo sollievo rispetto al male di vivere. Naturalmente esiste anche la possibilità che la dipendenza da internet sia una conseguenza di disturbi psichici già in atto o verso i quali il soggetto interessato sia innatamente predisposto, come la depressione (Fortson et al., 2007), i disturbi d’ansia (Black e Shaw 2008), il disturbo bipolare, il gioco d’azzardo patologico, la sindrome da deficit di attenzione (Ha et al., 2006) e la fobia sociale (Yen et al., 2007). Infine, è da evidenziare che, dopo l’avvento degli smartphone, le cose si sono ulteriormente complicate. Infatti, la disponibilità di uno strumento portatile che si collega a internet, ha portato moltissimi soggetti dipendenti a sviluppare una particolare nevrosi[28] che è stata chiamata nomofobia[29]. In mancanza del proprio smartphone o tablet, chi ne soffre può manifestare crisi ansiose quando non c’è campo o quando la batteria dell’apparecchio si è scaricata (Blanco, 2016).
Ma qual è la situazione degli adolescenti italiani in merito alla dipendenza da internet? Nel 2017, l’“Associazione Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo” ha condotto un sondaggio online su un campione di 500 soggetti di età compresa tra 15 e 50 anni. Il 51% del campione nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 20 anni ha dichiarato di avere difficoltà a prendersi una pausa dagli strumenti collegati alla Rete, tanto da arrivare a controllare lo smatphone in media 75 volte al giorno. Il 7% ha dichiarato di arrivare fino a 110 volte al giorno. Ma ciò che preoccupa di più la comunità degli psichiatri, è il fatto che il 13% degli adolescenti costantemente connessi è a rischio dipendenza[30].
2.6. Il grooming
Per grooming, dall’inglese “to groom”, in questo contesto ci si riferisce all’adescamento online[31]. In particolare, il grooming è la tecnica di manipolazione psicologica utilizzata da adulti nei confronti di adolescenti e bambini al fine superare le loro resistenze emotive e conquistare la loro fiducia. Di norma, il fine ultimo dell’adescatore è quello di instaurare una relazione intima e di carattere sessuale con il minore.
I dati attuali ci dicono che il fenomeno del grooming è in aumento, anche a causa di comportamenti quanto meno incauti da parte dei minori in relazione alla privacy. Una ricerca commissionata nel 2017 all’IPSOS da parte di “Save the Children”, ha fatto emergere una situazione assai preoccupante che non riguarda solo gli adolescenti (campione di età compreso tra 12 e 17 anni), ma anche gli adulti (campione di età compreso tra i 26 e i 65 anni). Per cominciare, gli adolescenti ricevono il loro primo smartphone a 11 anni e mezzo, un anno di età in meno rispetto al dato del 2015. 9 intervistati su 10, tra adulti e ragazzi, non fanno nulla per proteggere la propria immagine online e sono ben disposti a far accedere le app[32] ai propri contatti, ritenendo che sia un giusto “prezzo” da pagare per avere in cambio un servizio (lo pensa il 90% di tutti coloro che utilizzano le app permettendo l’accesso ai propri contatti). Quasi il 10% degli adolescenti utilizza carte prepagate o sistemi di pagamento online per scommesse e giochi legali sul web vietati ai minori; oltre il 20% degli adolescenti invia foto o video intimi di se stesso a coetanei o adulti conosciuti in Rete, oppure attiva la webcam del proprio pc in cambio di regali. Sia adulti che ragazzi frequentano sempre più i social, avendo in media 5 profili a testa; il 95% degli adulti e il 97% degli adolescenti possiede uno smartphone e tutti hanno la consapevolezza del fatto che i loro dati vengono registrati ma non sanno esattamente quali. Solo il 18% degli adolescenti e il 14% degli adulti almeno una volta ha eseguito azioni efficaci per proteggere la propria immagine online, ma solo il 19% dei ragazzi e il 16% degli adulti usa bloccare su Facebook e WhatsApp i contatti indesiderati. Il 29% degli adolescenti e il 23% degli adulti reputa che sia sicuro condividere online foto e video intimi riservati perché “lo fanno tutti”; ben l’81% degli adolescenti e il 73% degli adulti pensa che, quando qualcuno condivide online qualcosa, abbia implicitamente fornito il consenso affinché il materiale sia diffuso. I risultati della ricerca sono a dir poco inquietanti, soprattutto per il fatto che sia gli adulti che i ragazzi hanno le medesime conoscenze e gli stessi livelli di consapevolezza al riguardo delle possibili conseguenze di comportamenti incauti. Infatti, «gli adulti dovrebbero esercitare un ruolo di guida in un contesto complesso e in continua evoluzione, come quello del mondo e delle tecnologie digitali», ha spiegato Raffaela Milano, Direttore dei Programmi Italia-Europa di “Save the Children”. Invece, risulta che gli adulti ne sappiano quanto gli adolescenti se non meno.
Nel 2015, sempre una ricerca condotta dall’IPSOA per “Save the Children” nel merito delle interazioni online, aveva evidenziato quanto segue: il 41% degli adolescenti interagisce anche con persone che non conosce direttamente; il 24% invia messaggi contenenti foto e video di stampo sessuale in gruppi in cui non conosce tutti i membri; il 33% si da appuntamento con soggetti conosciuti tramite questi gruppi. Questo ultimo dato evidenzia il rischio a cui si sottopongono gli adolescenti con il loro comportamento quanto meno spregiudicato, fatto di fiducia “sulla parola” data all’interlocutore virtuale.
Ora veniamo al grooming nel suo aspetto più “tecnico”, ovvero nelle sue modalità di esecuzione da parte dell’adescatore online.
Il grooming si realizza attraverso cinque passaggi. I primi quattro riguardano l’adescamento; il quinto, invece, serve all’adescatore per tenere “incatenato” il minore.
- Contatto: avviene di norma tramite le chat di gruppi o giochi online o, semplicemente, con una richiesta di amicizia su un social. Iniziano le prime brevi conversazioni con la vittima.
- Fiducia: l’adescatore inizia un paziente processo di interazione online con il minore per conquistarne la fiducia. Condivide ad esempio contenuti musicali, immagini o video che hanno a che fare con le passioni dell’adolescente, si mostra aggiornato sulle mode del momento e, per finire, cerca di capire se il ragazzo o la ragazza ha dei problemi. In tal caso, lo/la spinge amorevolmente a confidarsi mostrando tutta la sua comprensione.
- Acquisizione di informazioni: dopo aver conquistato la fiducia della vittima, con accuratezza di linguaggio e senza destare sospetti l’adescatore cerca di informarsi su aspetti della vita del minore che non si possono desumere dal suo profilo. Ad esempio, le abitudini dell’adolescente, chi sono e cosa fanno i suoi familiari, tipologia del dispositivo fisso e mobile con cui comunica il ragazzo o la ragazza, grado di sicurezza del dispositivo e se lo stesso viene utilizzato e/o controllato dai familiari.
- Esclusività: quando l’adescatore ha instaurato una relazione che, per il minore, appare del tutto genuina, comincia la fase dell’esclusività, una forma di relazione solida e impenetrabile ad altri soggetti esterni che apre la strada alla condivisione di contenuti sessualmente espliciti da parte dell’adescatore il quale chiede al minore di fare altrettanto. Se il minore è disponibile, potrebbe anche realizzarsi una relazione via webcam. L’adescatore rarissimamente si mostra in volto mentre convince l’adolescente a farlo mostrando altresì i suoi lati intimi. Inoltre, l’adescatore potrebbe chiedere un incontro di persona per conoscersi meglio e non è raro che ciò si verifichi.
- Ricatto: se l’adolescente dovesse rendersi conto dell’errore che sta commettendo e volesse ritirarsi dalla relazione, potrebbe scattare, da parte dell’adescatore, la strategia del ricatto. Infatti, di norma, l’adescatore, dal momento del primo contatto, ha iniziato a collezionare “prove” a sfavore del minore e potrebbe minacciarlo di rivelarle ai suoi genitori o a persone che fanno parte del giro delle sue conoscenze nel mondo reale.
2.7. Il suicidio 2.0
In base ai dati registrati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2015, nel mondo ogni anno muoiono circa 800 mila persone per suicidio, in media una persona ogni 40 secondi. Inoltre, il suicidio è la seconda causa di morte nei soggetti di età compresa tra i 15 e i 29 anni e i dati suggeriscono altresì che, per ogni suicida deceduto, potrebbero esserci stati almeno 20 casi di tentato suicidio[34].
Secondo la maggior parte degli studiosi in ambito medico-psichiatrico e psicologico, i soggetti che si suicidano sono persone che presentano delle psicopatologie, come disturbi dell’umore (depressione e manie) che possono sfociare in deliri, disturbi borderline di personalità[35], abuso di sostanze e disturbi della condotta. In tema di adolescenti, si stima che il rischio di suicidio sia tre volte maggiore in quei ragazzi che hanno una storia di abuso di sostanze in concomitanza con un disturbo depressivo (Brent et al., 1997). Esistono inoltre diversi studi i quali indicano che anche soggetti con disturbo narcisistico di personalità, affetti o non affetti da depressione (Stone, 1989; Sher, 2016), possano ricorrere al suicidio (Ronningstam e Maltsberger, 1998; Sher 2016). Ad ogni modo, dal punto di vista medico-psichiatrico le motivazioni del suicidio sono in parte un mistero, soprattutto perché i dati statistici forniscono ancora oggi delle informazioni assai contraddittorie e discutibili. Tuttavia, l’orientamento prevalente riguarda la sofferenza interiore, un dolore talmente grande a cui può porre rimedio unicamente l’estremo gesto di togliersi la vita.
Da un punto di vista storico, invece, il suicidio risulta una pratica seguita dagli esseri umani di tutti i tempi. In alcune culture occidentali, in talune circostanze il suicidio era considerato un gesto eroico. Ad esempio, nell’antica Roma il suicidio era ritenuto un gesto nobile di coraggio finalizzato ad evitare di arrendersi al nemico. Inoltre, più recentemente, nell’Europa dei primi del Novecento, era diffuso e socialmente accettato il cosiddetto “suicidio d’onore”, un atto che consentiva di “lavare” colpe infamanti come tradimenti e debiti. Praticamente, la morte autoinflitta diveniva una sorta di “pagamento” dei propri conti in sospeso con la società. Per quanto riguarda le religioni, invece, il suicidio è stato sempre censurato e condannato.
In merito alla nostra analisi sui suicidi correlati più o meno direttamente al web, è degno di nota un fenomeno chiamato netto shinju[36], una forma contemporanea di suicidio giapponese la cui espressione è nota da oltre un decennio. Il netto shinju si concretizza a partire dalla conoscenza di altri aspiranti suicidi attraverso il web, tramite gruppi social creati appositamente in cui ci si scambia consigli sui diversi metodi con cui togliersi la vita. In seguito, due o più soggetti scelgono luogo e orario per incontrarsi offline, recarsi sul posto insieme e, contemporaneamente e autonomamente, con lo stesso metodo (es. impiccagione) autoinfliggersi la morte (Ikunaga, 2013). Restando in Giappone, altri noti esperti, negli ultimi dieci anni, si sono particolarmente interessati allo studio delle cause del suicidio tra i giovani nipponici, in quanto, nella terra del Sol levante, i primi anni del Duemila hanno fatto registrare la nascita di diversi gruppi e forum, creati per far incontrare e interagire aspiranti suicidi, i quali sembrano aver provocato un numero impressionante di vittime. L’interesse degli studiosi per questa modalità suicidaria, come si è prima rappresentato, è stato ed è tuttora significativo. Infatti, i paradigmi classici non riescono a spiegare i caratteri distintivi di questo fenomeno del tutto nuovo in relazione al quale, ancora oggi, si hanno molte domande e poche risposte. Nei primi anni del Duemila è stato ipotizzato, innanzitutto, che alla base di questo fenomeno vi sia la paura del rifiuto e dell’isolamento che verrebbe compensata dalla connessione sociale che si realizza grazie alle infinite possibilità offerte dal web di conoscere altri soggetti che condividono le stesse idee, emozioni e aspirazioni (compresa quella del suicidio). In secondo luogo, si è supposto che l’estrema paura del rifiuto e dell’isolamento sia da addebitarsi soprattutto alla cultura nipponica, dove l’ego e il sé sociale sono strettamente legati. Ne emerge che il suicidio di “gruppo internet” (chiamato così negli studi effettuati) permetterebbe ad una persona di svanire e, al contempo, di avere una morte “comoda”, condivisa con altri e facilitata dal gruppo stesso (Ozawa-De Silva, 2010). In sostanza, si resta “connessi” anche nell’atto estremo senza tradire la propria cultura.
In Italia, nel 2011, Corrado De Rosa e colleghi del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Napoli “SUN” hanno condotto uno studio relativo alla diffusione dei siti internet dedicati al suicidio, evidenziando una certa facilità di reperimento e accessibilità di siti internet dedicati al tema. Sono state inserite in cinque dei più popolari motori di ricerca della Nazione le parole che potrebbero essere digitate con più facilità da un aspirante suicida ed è emerso che, la maggior parte dei siti che fornisce informazioni su come suicidarsi e che incoraggia al suicidio, sono sempre ai primi posti dei risultati delle ricerche (De Rosa et al., 2011)[37].
Gli effetti “benefici” del web in relazione alla paura dell’isolamento e del rifiuto sociale, accomunano buona parte delle persone dipendenti da internet, soprattutto nella sua dimensione social, anche in Occidente. È da precisare, però, che l’uso del web, anche eccessivo, di per sé non provoca depressione o altre patologie. Se mai, se un soggetto è già predisposto a sviluppare un disturbo psichiatrico, divengono maggiori le possibilità che questo insorga a causa di fattori connessi alle interazioni e relazioni online. Infatti, il continuo rimuginare[38] sul fatto di non ricevere i consensi che ci si aspetta di ricevere, oppure di subire attacchi o denigrazioni, può portare chi è predisposto, anche da fattori sociali e ambientali, a sviluppare disturbi più o meno gravi come nevrosi, paranoia, ossessione o depressione. Quest’ultima, lo ricordiamo, è un importante fattore di rischio del suicidio.
2.8. Possibili ipotesi sul suicidio nel Blue Whale challenge
Allo stato attuale non si hanno ancora dati relativi alle condizioni di salute mentale o ai fattori di rischio sociali e ambientali dei ragazzi che si sono prodigati nel Blue Whale, né di quelli che lo hanno portato a termine, né degli altri che si sono salvati. Tanto meno si ha notizia di eventuali loro dipendenze da internet o sostanze stupefacenti ovvero disturbi della condotta. I genitori dei ragazzi morti suicidi in seguito alla “sfida della balena blu”, nelle loro interviste dipingono i loro figli come ragazzi normali che non avevano mai dato segni di disagio. Pertanto, l’analisi del fenomeno, in questa sede, si potrà operare da un punto di vista squisitamente ipotetico.
Innanzitutto, il Blue Whale challenge sembra avere solo a tratti delle caratteristiche in comune con i suicidi di coloro che annunciano la propria dipartita sul web e si auto-riprendono con una telecamera nell’atto estremo di togliersi la vita davanti ai loro “followers”. Infatti, in questo caso, di mezzo non vi è una “sfida”, una gara, bensì il grido di dolore di un essere umano che, finalmente, può essere ascoltato e visto da decine se non centinaia di migliaia di persone. Ciò che potrebbe accomunare con ogni probabilità le due modalità di suicidio, è la precedente esposizione a contenuti video diffusi sul web in cui si vedono soggetti che si tolgono la vita divenendo una sorta di celebrità. In sostanza, in entrambi i casi, l’emulazione potrebbe essere il “volano” dell’ideazione suicidaria, dalle fasi preliminari sino al momento decisivo. Il suicidio annunciato e ripreso fin dalle sue fasi preliminari sul web, in modo che arrivino al protagonista continue “attenzioni” da parte del pubblico di followers, tra chi lo prega di non compiere l’insano gesto, chi lo stima per il coraggio e chi lo incita, appare come il cosiddetto “quarto d’ora di celebrità” profetizzato da Wharol (chiaramente della sua versione estrema). Invece, il suicidio nel Blue Whale challenge appare come l’atto finale di un durissimo percorso di riscatto sociale del protagonista. Infatti, si parla di “sfida”, una sfida che permette all’adolescente di uscire dalla noia, dall’isolamento o dall’emarginazione stimolando il suo bisogno di mettere alla prova sé stesso, raggiungendo oltremodo la popolarità (benché postuma alla sua morte). La “sfida” è la chiave di lettura del fenomeno del Blue Whale. Infatti, la sfida, da un punto di vista biologico è una caratteristica insita nei giovani esseri umani ancora non maturi sotto il profilo delle competenze sociali e, quindi, maggiormente inclini ad esporsi ai pericoli. A questo si aggiunge l’odierna visione del successo offerta dalla società, la quale fornisce, come già argomentato, l’idea di un mondo sempre più individualista dove è vincente chi “appare” meglio degli altri e che, per questo motivo, merita attenzione e ammirazione.
Il “sistema” studiato dall’inventore del Blue Whale challenge permette ai ragazzi più fragili, insicuri, con poca autostima e che si sentono isolati e/o emarginati, di avere, probabilmente per la prima volta, una figura di riferimento, il “curatore” (o “tutor”). Questa sorta di maestro, di “guida spirituale”, potrebbe essere colui che colma il vuoto creatosi con il mondo degli adulti, soprattutto con i genitori. Infatti, dobbiamo sempre tener presente che, anche se l’adolescenza costituisce una fase della vita in cui i ragazzi fanno di tutto per creare un distacco dai genitori, essi hanno comunque il bisogno di averli accanto, di sapere che ci sono. Talvolta, il vuoto creatosi nel rapporto tra figli e genitori viene colmato da altre figure importanti, come gli zii o i fratelli maggiori ma anche gli istruttori sportivi. Nel caso del Blue Whale, evidentemente tutti i possibili legami con le predette figure di riferimento sono falliti e il curatore ha campo libero per creare un rapporto esclusivo con i suoi “adepti”. Quindi è probabile che il curatore li faccia sentire amati, compresi, motivati, unici e pronti per iniziare l’“addestramento”. Come sappiamo, le prove iniziali del Blue Whale sono pressoché innocue ma si fanno via via sempre più rischiose e dolorose, mettendo certamente a dura prova i nervi del ragazzo il quale potrebbe anche rinunciare. Se l’adolescente continua, invece, è chiaro che avrà trovato dentro di sé delle risorse che credeva di non possedere. Questa scoperta gli donerà maggiore consapevolezza delle sue doti caratteriali e delle sue capacità, facendolo sentire sempre più forte e coraggioso. Si dice che, alla manifestazione di rinuncia da parte del ragazzo finito nella trappola del Blue Whale, segua la minaccia, da parte del curatore, di ritorsioni contro la sua famiglia. Tuttavia, è ragionevole credere che questa non sia la vera leva che spinge un adolescente ad arrivare fino in fondo. Infatti, non bisogna sottovalutare la circostanza che, un “lavaggio del cervello” fatto a dovere su un soggetto psicologicamente vulnerabile, sia più che sufficiente per creare una vera e propria dipendenza da una guida forte e dai suoi precetti. Il curatore potrebbe incarnare, in questo caso, l’essere dall’immensa potenza, un’espressione usata dal famoso neuroscienziato Paul MacLean (1913-2007) per denominare il capobranco e spiegare la misura in cui i gruppi, compresi quelli umani, possano divenire completamente assoggettati ad esso. Secondo Michele Ernandes, ricercatore dell’Università di Palermo che ha ripreso la teoria di MacLean sull’essere dall’immensa potenza in uno studio sull’evoluzione, il nostro antenato Australopithecus afarensis, vissuto fino a circa 3 milioni di anni fa, aveva un tipo di socialità costruita sulla figura del capobranco assoluto, cioè l’essere dalla immensa potenza, al quale gli appartenenti al gruppo dovevano sottostare. Quindi, l’Homo sapiens, a livello neurobiologico, conserverebbe ancora oggi quello schema di comportamento che continua ad esistere nonostante sia venuta a mancare, nel corso dell’evoluzione, la figura del capobranco assoluto (Ernandes e Giammanco, 1998; Blanco, 2015).
In virtù di quanto fino ad ora argomentato, si potrebbe supporre, pertanto, che il suicidio nel Blue Whale challenge sia determinato dalla concomitanza dei seguenti fattori:
- la presenza di disturbi psichiatrici o psicologici;
- una situazione sociale e/o ambientale sfavorevole (isolamento, emarginazione, mancanza di punti di riferimento ecc.);
- la cieca devozione nei confronti del curatore;
- il sentimento di invincibilità derivante dall’aver superato prove estreme;
- la prospettiva di essere ricordati per sempre per la forza e il coraggio dimostrati, guadagnando una sorta di immortalità.
3. La ricerca sul campo: gap generazionale
3.1. Il metodo
La ricerca qualitativa è utilizzata, soprattutto in sociologia, per descrivere uno o più fenomeni in un determinato contesto. Nello specifico, «è un processo di indagine che si basa sulla comprensione di distinte tradizioni metodologiche di indagine per esplorare un problema sociale o umano. Il ricercatore costruisce una fotografia complessa e olistica, analizza le parole, riporta dettagliatamente il punto di vista degli informatori e conduce lo studio in un setting naturale» (Creswell, 1998). Il ricercatore, al fine di raccogliere informazioni, stabilire fatti e presentare testimonianze il più possibile autentiche e oggettive utilizza un’intervista semi strutturata, in cui le risposte sono assenti e l’insieme di atti di interrogazione è fisso. Questi, inoltre, presentano tra loro gradi differenti di standardizzazione[39] e direttività[40], nonché l’uso di sollecitazioni di natura diversa. La conduzione dell’intervista semi strutturata può essere di tipo classico(detto anche tradizionale): si propongono delle domande in un ordine preciso che rispetta la logica dello svolgimento del tema, partendo da quesiti generali fino ad arrivare nello specifico.
Nell’intervista individuale si ha un’interazione sociale tra due soggetti, intervistatore e intervistato. Quest’ultimo deve essere ritenuto idoneo a fornire informazioni adeguate e utili, con uno scopo conoscitivo volto all’approfondimento di un fenomeno sociale e guidato da uno schema di intervista. Per l’argomento in questione si è deciso di sottoporre ad una intervista persone che lavorano o vivono a contatto con adolescenti, quali:
- due genitori di adolescenti: una mamma e un papa;
- educatore di scuola primaria;
- psicologa di scuola primaria e presso studio privato;
- professoressa di scuola secondaria di primo grado.
- Secondo Lei, oggi, i bambini e gli adolescenti sono sufficientemente tutelati dagli attori del nostro sistema sociale intesi nella loro accezione più ampia, a partire dalla famiglia, passando dalle diverse figure educative come insegnanti, istruttori sportivi e volontari degli oratori fino ad arrivare ai rappresentanti delle Istituzioni?
- Lei crede di essere sufficientemente informato/a sul mondo di internet e, in particolar modo, su come funzionano le cosiddette “comunità virtuali” come i social network?
- Sa come funzionano e quali sono le differenze tra i principali social network come Facebook, Instagram, Twitter e YouTube?
- Lei è al corrente di quale sia l’età minima per iscriversi ad un social network?
- Pensa che la scuola sia particolarmente attenta nell’affrontare, in termini educativi, il problema della prevenzione delle dipendenze da internet e delle eventuali manipolazioni psicologiche operate da malintenzionati sul web?
- Se venisse a scoprire che suo/a figlio/a - alunno/a - utente è vittima di manipolazioni psicologiche da parte di malintenzionati sul web, cosa farebbe per aiutarlo/a?
- Il 18 giugno 2017 è entrata in vigore la legge 29 maggio 2017, n. 71, recante "Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo". Ne era al corrente e sa di cosa tratta?
- Sa cosa sono il deep web e il dark web?
- Lo scorso anno, alcuni giornalisti e, soprattutto, la trasmissione “Le Iene” di Mediaset, hanno condotto delle inchieste riguardanti il “Blue Whale”, un gioco online in cui i ragazzi devono superare 50 prove di vario genere a difficoltà crescente. Si parte con una prova semplice, come svegliarsi alle 4,30 del mattino e guardare un film horror, si passa per l’autolesionismo e si arriva all’ultima prova che è quella di lanciarsi nel vuoto da un palazzo molto alto. Chi termina tutte le sfide vince. Ne ha sentito parlare?
- Lei crede sia possibile che un/a ragazzo/a possa essere manipolato psicologicamente attraverso il mondo virtuale da sconosciuti fino ad arrivare addirittura al suicidio?
3.2. La ricerca sul campo
Con gap (o conflitto) generazionale si intende la contrapposizione di idee e la divergenza di norme culturali che dividono la vecchia generazione dalla nuova. Proprio questa è la realtà emersa dalla ricerca fatta. Figli, alunni, ragazzi sempre più tecnologici seguiti da genitori ed educatori che sia per tempo, sia per difficoltà non conoscono molto di questo mondo ma anzi, talvolta, lo reputano più sicuro dell’ambiente esterno.
Gli studiosi chiamano il suddetto concetto con il nome di digital divide generazionale, evidenziando questo abisso tra generazioni. In uno studio degli ultimi anni riguardante questo fenomeno, si è notato come, in Italia, internet si diffonda maggiormente in adolescenti di età compresa fra i 14 e i 17 anni, ma già dai 40 anni il dato è pari alla metà. Inoltre, i giovanissimi utilizzano la tecnologia per crearsi nuove conoscenze ed incrementare la propria autostima, mentre gli adulti utilizzano questi mezzi per informarsi e restare aggiornati su ciò che avviene nel mondo reale. Secondo la ricerca “Bambini e nuovi media” del 2010, eseguita dalla onlus “Terre des Hommes” si rileva che unicamente il 18% dei genitori intervistati sia a conoscenza dei rischi del web.
Anche secondo la ricerca svolta per questo elaborato, gli intervistati sostengono tutti di avere e utilizzare quotidianamente dei social network, ma di essere quasi per nulla informati sui rischi: «li so utilizzare in modo consapevole, ma essendo un mondo in continua evoluzione penso manchino ancora diversi pezzi. Cerco sempre di porre attenzione ai rischi e metto i ragazzi di fronte alla realtà perché loro spesso vedono questi rischi come qualcosa che non li tocca» risponde la psicologa scolastica, aggiungendo che purtroppo sono sempre più giovani i ragazzi con uno smartphone in mano con libero accesso a internet. A questo proposito è stato chiesto loro se sapessero quale fosse l’età minima[41] per iscriversi ad un social network, ma anche in questo caso la risposta è stata negativa.
I genitori, in linea generale, riconoscono questo loro limite e si affidano alle istituzioni e a diverse figure educative, come gli insegnanti, per tutelare i propri ragazzi. La convinzione, però, è che nella scuola primaria e secondaria di primo grado vi sia molta attenzione alla problematica, cosa che poi viene meno nella scuola secondaria di secondo grado dove queste anime «se chiedono aiuto, difficilmente trovano qualcuno disposto solo ad ascoltarli, dato che a casa non parlano in quanto vogliono dimostrarsi grandi» sostiene un genitore.
Fortunatamente, il pensiero generale è quello che le istituzioni si stanno evolvendo ed informando in questo ambito cercando di formulare progetti per creare consapevolezza sull’utilizzo del web. «Ultimamente ci si sta muovendo molto in questa direzione, vi è molta più attenzione e sempre più richieste per progetti educativi» dice l’insegnante, e continua «sicuramente non è ancora abbastanza, forse è più utile insegnare loro come usare questi social piuttosto che fare corsi generici su bullismo e cyberbullismo». Tutto questo sarebbe ancora più utile se si iniziassero questi progetti già dalla scuola primaria, in quanto, come detto nei precedenti capitoli, l’età dell’adolescenza è stata ridotta a 9/10 anni, ma si tratta ancora di bambini immaturi e non pienamente consapevoli delle conseguenze delle loro azioni.
Per quanto riguarda, invece, il fenomeno del Blue Whale, a livello generale vi è conoscenza del gioco. Ognuno degli intervistati ha parlato ai propri figli o studenti di questo e li ha allertati, convincendoli ad avvisare subito in caso di necessità. «In Italia è passato poco, nel resto dell’Europa è stato molto più devastante, però ho reputato molto utile parlarne ai ragazzi perché resto sempre dell’idea che prevenire sia meglio che curare» sostiene l’educatore della scuola primaria. È un fenomeno tremendo. Entrambi i genitori sostengono che sia orribile questa manipolazione della mente umana, soprattutto della mente di giovani ragazzi. Si tratta di un fatto davvero pericoloso soprattutto perché «se non si ha abbastanza forza o coraggio per parlarne in casa con chi è più esperto o con chi ti ama realmente, uscirne è quasi impossibile».
Conclusioni
Alle espressioni “social media”, “social network” e “social networking” di norma si continua ad associare concetti ed espressioni come “sociale”, “socialità” o “socializzazione” senza aver presente che il mondo del web è notevolmente cambiato dal suo avvento. Alla fine degli anni Novanta del XX secolo, il social era fatto per socializzare. Si comunicava, si facevano nuove conoscenze. Con Facebook molti hanno avuto anche l’opportunità di ritrovare vecchi amici e compagni di scuola o di scoprire di avere lontani parenti sparsi per il mondo. Oggi, invece, la tendenza che si va delineando sempre in misura maggiore nel mondo dei social non è la socializzazione ma la “condivisione”. Una condivisione fatta per essere “approvati” e ammirati dell’altro. Poco importa se l’altro è un amico o un conoscente anche nella vita reale oppure un perfetto sconosciuto capitato per caso tra i propri contatti, l’importante è che, attraverso un suo “like” o un commento positivo, egli dimostri la sua attenzione e stima. Questa appena descritta non è prerogativa dei ragazzi ma riguarda anche molti adulti. Però, mentre gli adulti tendono ancora a “cavalcare” i social “classici” come Facebook, gli adolescenti si sono via via “trasferiti” sui quelli di condivisione delle immagini e dei video come Instagram. La web generation, nel mondo virtuale, appare disinteressata alla dialettica e al confronto con l’“altro” che è realmente qualcuno diverso da Sé. Con uno smartphone nelle proprie mani ventiquattr’ore al giorno, molti adolescenti sono intenti a “guardare” immagini. Guardano di continuo foto e video dei loro contatti social e guardano di continuo la propria immagine immortalata da continui selfie[42] realizzati nelle più svariate posizioni, nei più diversi luoghi e contesti. L’“altro” esiste e serve solo per rinforzare l’immagine di se stessi anche se, in realtà, la relazione sul web è vera quanto una relazione in “carne e ossa”. Solo che la relazione virtuale non permette di avere feedback diretti e concreti e molto viene lasciato all’immaginazione. Il web è, quindi, un mondo in cui la relazione è basata più sull’immaginazione che sull’esperienza diretta (Trabucchi, 2014). In questo modo, l’empatia viene ad essere pericolosamente minata, soprattutto se si tratta di un adolescente che ha un cervello in pieno corso di maturazione sotto il profilo delle strutture cerebrali coinvolte nei processi empatici. Questi ultimi sostengono la capacità di immedesimarsi negli stati d’animo dell’altro e di comprenderne i bisogni. In altre parole, grazie all’empatia è possibile capire le emozioni e i sentimenti dell’altro.
Da circa un trentennio, sappiamo che nel cervello esistono degli speciali neuroni chiamati neuroni specchio[43] i quali si attivano sia quando eseguiamo un atto motorio sia quando osserviamo un altro soggetto eseguire il medesimo atto motorio. Ciò avviene anche nell’ambito delle emozioni. Ad esempio, se osserviamo il volto di una persona che ci sorride, nel nostro cervello si attivano gli stessi neuroni specchio che si attiverebbero se quel sorriso lo stessimo eseguendo noi stessi. Quindi, il nostro cervello, in modo automatico, riesce a capire anche se il sorriso osservato è un sorriso vero o un sorriso finto senza necessità di alcuna attività di elaborazione di tipo inferenziale. Questo meccanismo, chiamato di “simulazione incarnata” (io sono dentro l’altro, l’altro è dentro di me), è fondamentale che si sviluppi adeguatamente in tutte le fasi della crescita di ogni individuo, a partire dalla nascita sino ad arrivare alla prima gioventù (Blanco, 2016). Pertanto, da quanto è emerso sino ad ora, se un adolescente risulta impegnato più ad osservare uno smartphone, un tablet o un pc piuttosto che i volti delle persone con le quali ha la possibilità di interagire dal vivo, anche se non dovesse isolarsi, annoiarsi, sviluppare dipendenze, suicidarsi o diventare un narcisista, con ogni probabilità sarà un adulto con scarse doti empatiche e con competenze sociali non pienamente sviluppate.
Dr. Massimo Blanco
Dr.ssa Micol Trombetta
Riproduzione riservata
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Note
[1] Autore e giornalista statunitense. Scrive per il “New York Times” ed è membro della “National Association Council of Peers Award per l'Excellence Hall of Fame”.
[2] VKontakte è la piattaforma “social” russa che sarà descritta nel secondo paragrafo.
[3] Il click Mi piace sui social network. Inventati nel 2007 da Justin Rosenstein, con lo scopo di creare ottimismo si sono trasformati, nel giro di qualche anno, nel motore dei social. È la quantità di like al commento o alla foto del singolo a decretare che persona si è, se si presenta come un fallito o un modello da seguire per la società. Lo stesso ideatore ha dichiarato di essersi pentito di ciò che ha creato.
[4] È ancora incerto il significato di questa sigla. Secondo alcune fonti si tratta del nome di un gruppo di persone tendenti al suicidio su VK; secondo altre fonti è semplicemente una sigla senza alcun senso nascosto.
[5] Intervista di Michele Ardengo a Carlo Solimene, Il Giornale del 30/05/2017.
[6] Intervista di Rachele Bombace a Maurizio Pompili, Agenzia DIRE del 16/05/2017, www.dire.it.
[7] Il dark web è il “luogo” del web i cui contenuti sono raggiungibili via internet solo attraverso specifici software tramite codici autorizzativi.
[8] Indagine di The Submarine su internet e sul darknet, marzo 2017.
[9] Il Parlamento russo.
[10] Tanveer Mann, Metro.co.uk, 10/05/2017.
[11] Tratto da Colloqui con se stesso, una delle opere letterarie più famose dell’imperatore e filosofo romano Marco Aurelio, frutto di proprie riflessioni che riguardano gli ultimi dodici anni della sua vita.
[12] Depressione: disturbo dell’umore caratterizzato da significativi stati di insoddisfazione e tristezza che porta a non provare più alcun interesse per le comuni attività quotidiane e/o per quelle che, prima dell’insorgenza del disturbo, davano piacere.
[13] Arco temporale in cui il corpo di un fanciullo diviene un corpo sessualmente adulto, quindi capace di procreare. Le ghiandole sessuali iniziano la loro attività fisiologica. La femmina ha la prima mestruazione e nel maschio comincia la produzione di liquido spermatico. L’adolescenza, invece, è legata a fattori più che altro psicologici.
[14] Disturbo del comportamento che insorge nell’infanzia e nell’adolescenza e che consiste nella violazione ripetuta di norme sociali e diritti degli altri nonché nella messa in campo di attività rischiose per sé e per gli altri.
[15] Tratto dall’articolo Dal knockout game al balconing: giochi estremi della web generation di Giovanni Corato dell’1/11/2014 su “Il Giornale.it”.
[16] Tratto dall’articolo The viral Internet stunts parents should know di Christine Elgersma del 24/5/2017 su “Common Sense Media” CNN International Edition.
[17] Andy Warhol (1930-1987) è stato uno dei maggiori esponenti della “pop art”, una corrente artistica del XX secolo che si occupa della forma e della rappresentazione della realtà. Warhol è famoso per le sue opere che prendono spunto dal cinema, dalla pubblicità e dai fumetti.
[18] Qui si utilizza il termine “social” per indicare sia i social media che i social network. Questi ultimi rappresentano un sottoinsieme del più vasto mondo dei social media (Kaplan e Haenlein, 2012).
[19] Report Global Digital 2018 prodotto da We Are Social in collaborazione con Hootsuite.
[21] Jamieson S, Children ignore age limits by opening social media accounts, articolo del 9 febbraio 2016 sul quotidiano inglese “The Telegraph”.
[22] Follower: dall’inglese “seguace”. Termine usato nel mondo dei social per indicare un utente che si è registrato sulla pagina o su un canale di un altro utente al fine di visualizzarne i messaggi e i contenuti (foto e video). Il follower può in genere commentare o esprimere un parere (ad esempio tramite i “like”) i messaggi o i contenuti inseriti dall’utente seguito.
[23] Quella citata è la versione romana del mito di Narciso, narrata da Ovidio. Ne esiste anche una ellenica.
[24] Il simbolo del cancelletto (#) associato a una o più parole chiave per facilitare le ricerche tematiche in un blog o in un social media.
[25] I termini “internet” e “web” sono comunemente utilizzati, anche nell’ambito dello studio dei fenomeni sociali e psichici, in modo intercambiabile. In realtà, dal punto di vista informatico, internet può essere paragonato all’hardware del sistema mentre il web al software. Internet, in sostanza, è l’infrastruttura che fa funzionare la rete di applicazioni che servono per comunicare e condividere, cioè il web. In questo paragrafo, i termini “internet” e “web” verranno usati come sinonimi.
[26] Il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) è il manuale statunitense pubblicato dalla American Psychiatric Association, in cui vengono riportati e classificati tutti i disturbi mentali e psicopatologici. Il manuale viene utilizzato pressoché dai medici e dagli psicologi di tutto il mondo e, ad oggi, è giunto alla sua quinta edizione.
[27] Tra questi disturbi rientrano il gioco d’azzardo patologico, la cleptomania, la piromania e la tricotillomania.
[28] Disordine psicologico causato principalmente da un conflitto inconscio tra chi ne soffre e l’ambiente.
[29] In inglese nomophobia, dove “nomo” è l’acronimo di “no-mobile”.
[30] 22° Congresso Nazionale della SOPSI Società italiana di Psicopatologia, Roma, 19 marzo 2018.
[31] Il termine letteralmente è riferito alla buona cura degli animali (pulizia, spazzolatura del pelo ecc.) ma può significare anche l’atto di addestrare qualcuno. In etologia, è il comportamento con cui un animale si prende cura delle superfici del proprio corpo o del corpo di un individuo della stessa specie.
[32] Abbreviazione di “applicazione”. Si tratta di software per dispositivi di tipo mobile, come gli smartphone. In genere sono giochi o utilità della più varia natura (es. bussola, mappe geografiche, programmi dietetici, contapassi ecc.).
[34] Dati OMS del 2015.
[35] È un disturbo di personalità in cui il soggetto che ne è affetto tende a sperimentare emozioni e stati d’animo molto intensi che possono cambiare repentinamente. Il malato fa fatica a calmarsi se è emotivamente provato, pertanto potrebbe avere dei veementi scatti d’ira. Inoltre, il disturbo porta chi ne soffre ad abusare di sostanze, avere rapporti sessuali a rischio, autoinfliggersi lesioni e ad azioni di suicidio.
[36] Il termine è traducibile in inglese con “net-suicide” (suicidio connesso alla Rete internet).
[37] La ricerca è del 2011 ma la situazione, verificata nel 2018, si presenta ancora la medesima (cfr. articolo di Grazia Sambruna del 17 marzo 2018Suicidio e eutanasia online, bastano venti minuti su “Linkiesta” http://www.linkiesta.it/it/article/2018/03/17/suicidio-e-eutanasia-online-bastano-venti-minuti/37474/).
[38] In psicologia, il rimuginio consiste in uno stato d’ansia che riguarda pensieri negativi riguardanti pericoli o minacce
[39] Proprietà dell’intervista. Si riferisce all’uniformità degli atti di interrogazione in un’intervista individuale sia per quanto riguarda la forma, sia per quanto riguarda l’ordine della loro presentazione agli intervistati.
[40] Proprietà dell’intervista. Si riferisce alla possibilità, da parte del ricercatore, di stabilire i contenuti dell’intervista (Bichi, 2002).
[41] la normativa UE prevede età minima 16 anni a meno che non ci sia il consenso dei genitori, ma ha rimandato ai singoli garanti dei Paesi UE di fare come credono. In Italia, il Garante della Privacy non si è ancora espresso – ad ogni modo, FB, Instagram, WA ecc. fissano età minima a 13 anni
[42] Autoritratto realizzato con una fotocamera compatta, con uno smartphone, con una webcam o con un tablet.
[43] I neuroni specchio sono chiamati in gergo anche “mirror” (dall’inglese mirror neurons).